L’Identità
si definisce per contrapposizione: se per vedere un dipinto è
necessario possedere la nozione di cornice, così per cogliere una
musica bisogna distinguerla dal silenzio, anche nel mondo delle
cancellerie e dei lugubri antri di un tribunale labirintico, qual è
quello descritto ne “il Processo”, per comprendere la visone
dell’autore in merito all’identità del singolo, bisogna
orientare la propria bussola intellettuale, dirigere il proprio
binocolo attenzionale sull’universo dei personaggi secondari,
periferici, quei non-uomini che costellano il microcosmo kafkiano.
Tali
fantocci comunicanti sembrano in qualche modo rassomigliare alle
farfalle spillate dell’insettario nella “parabola della falena”
riportata in un celebre saggio di Didi-Huberman: proprio ora, che
esse sono immobili, stabili dinnanzi alla penetrazione del nostro
sguardo, proprio ora che ci si concedono, che possiamo apprezzare
l’armonica forma delle nervature, lo spettro cromatico delle ali o
la dimensione degli oocelli che costituiscono gli occhi, fatalmente
esse perdono la principale caratteristica che fa di una farfalla, una
Farfalla; la vitalità.
In
Kafka, il giudice, il portinaio, le guardie, gli imputati, mancano di
quell’elemento primario che rende l’uomo, Uomo; con scelta
stilistica banale ma di un’efficacia spiazzante, l’autore priva i
personaggi del nome proprio, per sostituirlo con un surrogato neutro
ed astratto come quello rappresentato dalla professione, dal ruolo,
dalla funzione alla quale si è adibiti e, nella più pessimistica
prospettiva, destinati, all’interno del gigantesco sistema
garantito dalla Ragione Calcolante, che definiamo società e che, in
Kafka trova quasi spontaneamente il proprio correlativo allegorico
nel mondo della Burocrazia.
Anche
gli elementi accidentali della vicenda, quali i ripetuti incontri,
dal sapore grottesco nel senso più pregnante di questo termine, fra
il protagonista K. e quelle antropomorfiche funzioni sopraccitate,
acquisiscono funzionalità per la narrazione; da elementi casuali si
elevano sul piano della necessità grazie ad un ulteriore escamotage
letterario: K. è vuoto di meraviglia, è concavo di stupore anche di
fronte alla comunicazione più grave e sorprendente, al dispiegarsi
dell’evento più assurdo, come se, scrive Benjamin “il
protagonista fosse tacitamente invitato a rammentarsi di qualcosa che
ha dimenticato”. La “sospensione dell’incredulità”, così
Coleridge definisce quell’atteggiamento di cooperazione
comunicativa fra il lettore e l’autore di favole, si trasforma in
Kafka nel tassello immanente all’esistenza umana stessa,
coercitivamente (ad opera di chi o cosa non è dato saperlo) abituata
ad accettare l’irrazionalità del razionale, l’assurdità del
normale.
È
stato scritto, molte volte in passato, che Kafka ha compreso ed
interpretato meglio di qualunque altro autore la complessità del
vissuto umano e le angosce che turbano la nostra epoca; non sappiamo
e in fondo non c’interessa sapere se questa affermazione
corrisponda a verità; forse si può dire solamente una cosa: egli
servendosi di quell’esasperazione che fa dell’arte, l’Arte, e
ponendoci di fronte agli imbarazzi, alle contraddizioni di un
individualismo che s’è dimenticato degli individui o come
scriverebbe Marx delle persone, ci ha aiutato, ci aiuta e ci aiuterà
a districare i rovi di quel processo d’identificazione personale
che, se state leggendo queste righe, ha iniziato la propria
discussione in aula in quell’istante remoto in cui siamo
involontariamente entrati a far parte dell’umanità, e che giungerà
a sentenza definitiva, a compimento, nell’eternità della parola
“mai”. Come del resto, le opere di Kafka.
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