martedì 1 ottobre 2013

Il processo d'identità

L’Identità si definisce per contrapposizione: se per vedere un dipinto è necessario possedere la nozione di cornice, così per cogliere una musica bisogna distinguerla dal silenzio, anche nel mondo delle cancellerie e dei lugubri antri di un tribunale labirintico, qual è quello descritto ne “il Processo”, per comprendere la visone dell’autore in merito all’identità del singolo, bisogna orientare la propria bussola intellettuale, dirigere il proprio binocolo attenzionale sull’universo dei personaggi secondari, periferici, quei non-uomini che costellano il microcosmo kafkiano.
Tali fantocci comunicanti sembrano in qualche modo rassomigliare alle farfalle spillate dell’insettario nella “parabola della falena” riportata in un celebre saggio di Didi-Huberman: proprio ora, che esse sono immobili, stabili dinnanzi alla penetrazione del nostro sguardo, proprio ora che ci si concedono, che possiamo apprezzare l’armonica forma delle nervature, lo spettro cromatico delle ali o la dimensione degli oocelli che costituiscono gli occhi, fatalmente esse perdono la principale caratteristica che fa di una farfalla, una Farfalla; la vitalità.
In Kafka, il giudice, il portinaio, le guardie, gli imputati, mancano di quell’elemento primario che rende l’uomo, Uomo; con scelta stilistica banale ma di un’efficacia spiazzante, l’autore priva i personaggi del nome proprio, per sostituirlo con un surrogato neutro ed astratto come quello rappresentato dalla professione, dal ruolo, dalla funzione alla quale si è adibiti e, nella più pessimistica prospettiva, destinati, all’interno del gigantesco sistema garantito dalla Ragione Calcolante, che definiamo società e che, in Kafka trova quasi spontaneamente il proprio correlativo allegorico nel mondo della Burocrazia.
Anche gli elementi accidentali della vicenda, quali i ripetuti incontri, dal sapore grottesco nel senso più pregnante di questo termine, fra il protagonista K. e quelle antropomorfiche funzioni sopraccitate, acquisiscono funzionalità per la narrazione; da elementi casuali si elevano sul piano della necessità grazie ad un ulteriore escamotage letterario: K. è vuoto di meraviglia, è concavo di stupore anche di fronte alla comunicazione più grave e sorprendente, al dispiegarsi dell’evento più assurdo, come se, scrive Benjamin “il protagonista fosse tacitamente invitato a rammentarsi di qualcosa che ha dimenticato”. La “sospensione dell’incredulità”, così Coleridge definisce quell’atteggiamento di cooperazione comunicativa fra il lettore e l’autore di favole, si trasforma in Kafka nel tassello immanente all’esistenza umana stessa, coercitivamente (ad opera di chi o cosa non è dato saperlo) abituata ad accettare l’irrazionalità del razionale, l’assurdità del normale.

È stato scritto, molte volte in passato, che Kafka ha compreso ed interpretato meglio di qualunque altro autore la complessità del vissuto umano e le angosce che turbano la nostra epoca; non sappiamo e in fondo non c’interessa sapere se questa affermazione corrisponda a verità; forse si può dire solamente una cosa: egli servendosi di quell’esasperazione che fa dell’arte, l’Arte, e ponendoci di fronte agli imbarazzi, alle contraddizioni di un individualismo che s’è dimenticato degli individui o come scriverebbe Marx delle persone, ci ha aiutato, ci aiuta e ci aiuterà a districare i rovi di quel processo d’identificazione personale che, se state leggendo queste righe, ha iniziato la propria discussione in aula in quell’istante remoto in cui siamo involontariamente entrati a far parte dell’umanità, e che giungerà a sentenza definitiva, a compimento, nell’eternità della parola “mai”. Come del resto, le opere di Kafka.

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